Sarà capitato a tutti, di pensare ad un alimento e provare profondo disgusto, o magari di aver cenato fuori la sera prima e di mettere in relazione (per causa-effetto) la nausea con ciò che si è mangiato, pur non avendo alcuna prova effettiva. Perché accade questo?
Le ipotesi potrebbero essere due:
- Tendiamo a fare queste associazioni perché si presentano vicine nel tempo: “Stamattina ho mal di stomaco, qual è l’ultima cosa che ho fatto ieri? Ho mangiato un panino. Allora la causa del malessere sarà stata il panino!”
- Tendiamo a fare queste associazioni perché la selezione naturale e l’evoluzione della specie avrebbe favorito l’associazione tra il malessere interno e gli stimoli gustativi per via delle loro proprietà che tendiamo ad assimilare: “Stamattina ho mal di stomaco, cosa ho fatto ieri? Ho mangiato un panino e poi ho fatto le montagne russe. Tra le due, la causa deve esser stata il panino!”
Per valutare quale delle due fosse più appropriata, Garcia J. & Koelling A. R. (1996), hanno testato l’avversione al cibo su dei topi sulla base di uno stimolo audiovisivo e di uno stimolo gustativo. I topi sono stati inseriti in una scatola in cui era presente un bevitore di acqua aromatizzata (stimolo gustativo) e sono stati sottoposti a due fasi: nella prima, ad ogni sorso veniva prodotto un suono rumoroso (stimolo uditivo) così che i ratti potessero associare lo stimolo gustativo con quello uditivo; nella seconda fase vengono ulteriormente presentati due stimoli: o una scossa elettrica o l’assunzione di una tossina, che provocava disturbi gastrici e nausea. L’obiettivo era osservare se i topi avrebbero smesso di bere l’acqua a seguito della scossa o del malessere provocato dalla tossina.
I risultati mostrano che i ratti tendevano ad associare la scossa allo stimolo uditivo piuttosto che a quello gustativo (l’acqua aromatizzata), mentre tendevano ad associare il malessere allo stimolo gustativo: come ipotizzato dagli autori, infatti, i topi tendavano a non bere più l’acqua quando essa provocava nausea e dolore, per l’effetto che comunemente chiamiamo “deve essere stato qualcosa che ho mangiato/bevuto”.
Ciò ci fa capire perché spesso decidiamo di non andare più a cena in “quel ristorante”, di eliminare un alimento dalla nostra alimentazione perché siamo convinti che ci faccia star male, pur, a volte, non avendo alcune prove mediche che confermino la nostra ipotesi.
Sappiamo, infatti, che ciò accade per via di un’evoluzione della specie che tende a proteggerci da ulteriore malessere. Ma se, nel caso dei ratti, il comportamento di evitamento si è rivelato utile e adeguato, non sempre è per tutti così (Chi ci assicura che le montagne russe non abbiano contribuito a provocare il mal di stomaco?). Ecco perché è importante fare sempre una seconda valutazione, provando invece a darci seconde e terze occasioni, cercando di pensare che a volte è l’istinto a parlare e non sempre qualcosa di certo.
Questo studio ci aiuta non soltanto a comprendere la nostra relazione con il cibo, ma anche la nostra relazione con la vita e con l’instaurarsi di patologie che andrebbero a compromettere la nostra salute mentale.
Bibliografia
Garcia, J., & Koelling, R. A. (1966). Relation of cue to consequence in avoidance learning. Psychonomic science, 4(1), 123-124.